scrittura

La dichiarazione


 Il professore Timothy Edwards aveva 55 anni, ma dimostrava un’età indefinita. Era tutt’altro che un brutto uomo. Seppure elegante e raffinato, l’aria timida, riservata, a volte estraniata, lo rendeva impensabile oggetto di desiderio. La voce, perfetto accetto oxfordiano, gli usciva di bocca come un sussurro che si faceva ancora più flebile quando il suo discorso si addentrava nel personale, i pensieri s’inabissavano nella timidezza. Poi, out of the blue dice un’espressione inglese che mi è sempre piaciuta molto, all’improvviso, insomma, il suo volto era capace di aprirsi in una risata, gli occhi azzurri prendevano un’espressione da ragazzo gioviale, la sua bocca allargava due parentesi ai lati in un’espressione scanzonata fino a quel momento inimmaginabile su una faccia così compassata.
Infossato al volante della sua vecchia auto, le confessò che era un po’ preoccupato perchè aveva passato i giorni precedenti il seminario che li aveva riuniti tutti e due dopo diverse settimane, mooning around. Vale a dire – e le insegnava così un’espressione che lei non conosceva – girando attorno alla luna, con la testa tra le nuvole, insomma. Non era cosa usuale, infatti, per uno come lui, medievista specializzato in storia spagnola, svegliarsi non prima delle nove del mattino e non trovare subito la strada per infilarsi dentro un paio di pantaloni e una camicia. Con una tazza di caffè lungo stretta nel pugno, girovagava per casa, quella che da quattro anni divideva con due giovani ardimentosi ed entusiasti ricercatori.
Da quando si era trasferito in quella università, in quel prestigioso campus, aveva lasciato per la prima volta la casa che ancora adesso divideva con la moglie, anche se ormai solo nel finesettimana e con le modalità di una relazione che in molti definivano ‘da separati in casa’.
“Da quando ho lasciato Londra per Manchester, continua a rinfacciarmi di averla abbandonata, ma non è così”, raccontava nel corso di quella piccola gita lungo strade secondarie che si intrecciavano a piccoli villaggi della campagna britannica.
“Non l’ho mai tradita in tanti anni di matrimonio, mai. E non la lascerei mai sola, non l’abbandonerei mai. Lei ha bisogno di me per sopravvivere”.
Il professore Timothy Edwards e Martha, questo il nome della moglie, si erano conosciuti all’incirca 35 anni prima all’università di Oxford e si erano sposati un anno dopo o poco più, quando tutti e due avevano solo 21 anni. Martha era stata l’unica donna del professore Edwards. Insieme avevano avuto una figlia che, ora venticinquenne, abitava lontano, sposata.
Quando il professore Timothy Edwards, nel corso di una riunione con i colleghi, aveva saputo che all’annuale seminario organizzato dal loro dipartimento di studi l’amico e collega Clifford Wilkinson aveva invitata anche quella giovane donna che ora stava seduta accanto a lui, aveva improvvisamente smesso di percepire ogni altra parola, proposta, ogni commento o impegno relativo all’organizzazione dell’incontro annuale che richiamava alla loro università colleghi da tutta Europa.
Lei con il mondo accademico non c’entrava assolutamente niente. Faceva fotografie ed era stata invitata dal professor Clifford Wilkinson dopo che questi aveva visto una sua mostra, in Spagna.
Lei era andata, felice tutte le volte che poteva mettere piede fuori città, orgogliosa dell’invito, sfrontata nel lanciarsi in imprese che lei stessa a volte considerava azzardate. E come non lo era presentare le sue foto in un consesso universitario?
Il professore Timothy Edwards l’aveva incontrata prima di allora una volta soltanto, quando con Wilkinson era stato per un finesettimana a Parigi dove la fidanzata del collega aveva organizzato una festa per i suoi 40 anni. Tra le festeggiate c’era anche lei, e lui subito ne era rimasto silenziosamente rapito. Era rimasto colpito dalla diffidenza di quella giovane donna, pur affabile, spavalda nell’atteggiarsi con gli sconosciuti.
“Prima di avvicinare una persona la osservi da capo a piedi – le aveva detto Timothy – solo dopo, se trovi la fiducia, ti dai”.
Al loro ritorno in Inghilterra il professore e Wilkinson avevano passato ore e ore a parlare di lei, chiusi nello studio di Clifford, la pipa accesa e un paio delle solite tazze di tè sul bracciolo delle sfondate poltrone di velluto che rendevano lo studio una tana accogliente, confidenziale.
“Non faccio che pensare a lei”, confessò presto il professor Edwards al professor Wilkinson.
“Mi sento come uno scolaretto di tredici anni, infatuato della compagna del banco davanti”.
“Sono rimasto impigliato dentro il suo sguardo”, confessava ciondolando la testa in quel suo modo un po’ svagato, trasognato.
“Continuo a vedermela passare davanti con quel suo incedere urgente. Continuo a sentirla mentre la sua voce profonda racconta di ciò che vorrebbe essere e teme non sarà mai. Continuo a vedere le sue braccia lunghe e le sue mani che appoggia alle cose quando attraversa una stanza, come volesse farsi largo a forza”.
Lei, in quei tre giorni a Parigi, si era accorta di qualcosa ma non di tanto. Tant’è che quando era arrivata in Inghilterra era rimasta un po’ sorpresa dalle parole dell’amico Clifford.
“Timothy non stava più nella pelle per il tuo arrivo. Sono giorni che vaga per il campus sonnambulo”.
Lei aveva pensato a una battuta, ad una delle solite galanterie di gusto britannico. Invece era proprio così, e Wilkinson era preoccupato per il collega più anziano.
Timothy Edwards era nato 55 anni prima in Rwanda, “la migliore delle nostre colonie”, aveva detto Winston Churchill, sebbene quella terra non facesse parte direttamente delle colonie dell’Impero Britannico.
“Mio padre – aveva raccontato Timothy – era uno di quelli che giravano con il cappello da esploratore sempre in testa, le bermuda kaki e i calzettoni bianchi. Un vero colonialista!”.
In quel mondo incontaminato, ovattato, fatto di grandi spazi, di cieli odorosi poggiati appena sopra le teste, di colori intensi e luci accecanti Timothy Edwards aveva trascorso l’infanzia e oltre, fino a quando era stato spedito dai genitori di nuovo nel Regno Unito, nel migliore e più esclusivo dei college. Qui aveva conosciuto Martha, colombiana di buona famiglia, arrivata in quella scuola senza ambizioni di emancipazione attraverso un percorso di studi che nel suo paese, soprattutto in quanto donna, non avrebbe mai potuto avere. Martha, piuttosto, come tante altre ragazze dell’alta società sudamericana, era stata destinata al Vecchio Continente per trovare un marito, un buon partito, anzi un ottimo partito che la sposasse portandola in questo modo per sempre fuori dal suo accidentato continente. Timothy Edwards era stato il prescelto. Lei gli si era affidata totalmente. Lui, così timido e impacciato con le donne, le aveva promesso amore, protezione, cura per il resto dei suoi giorni. Martha era stata per Timothy Edwards l’unica donna con cui aveva conosciuto l’amore. E viceversa.
Che cosa c’entrava allora lei che “guidava come un camionista irlandese”, aveva raccontato il professore Clifford Wilkinson al collega Timothy Edwards nelle loro divagazioni pomeridiane. Che cosa c’entrava lei, mediterranea, ciarliera, irrisolta, incoerente? Cinica per non far passare la sua fragilità, solare e poi ombrosa nel tempo di un battere di ciglia, sempre sul piede di guerra. Che cosa c’entrava lei con lui?
Per il professore Timothy Edwards gli ultimi mesi erano stati come svegliarsi in un nuovo mondo che non aveva ancora capito da che parte girava, in balia di ogni incontro, di ogni accadimento.
“So che non dovrei dirti quello che sto per dirti – le aveva premesso aggrappandosi sempre di più al volante dell’automobile – ma da quando sei arrivata qui da noi continuo a muovermi nella tua scia, cercando di sedermi vicino a te, nell’ossessione di trovare qualcosa da dire per tenerti vicina il più possibile”.
Lei non era abituata a tanta devozione e si ritrovò a rassicurare l’agitazione di Timothy, un’ansia che le sembrava sproporzionata, fuori dal tempo.
“Sono un uomo sposato”, si accusava lui, sebbene non l’avesse neanche sfiorata, sebbene lui stesso non avesse mai immaginato di potere osare il ben che minimo avvicinamento.
Lei, abituata a un mondo dove le relazioni affettive si consumavano in una settimana, dove passioni standard si accendevano in un attimo, davanti a un aperitivo, per spegnersi altrettanto velocemente nell’indolenza, nell’incapacità di mettersi in gioco, si era sentita all’improvviso in un altro mondo, lusingata di essere riconosciuta come donna, come oggetto di desiderio sublime, inarrivabile.
“Timothy non è successo niente”, continuava a rassicuralo.
Avrebbe voluto cercare un gesto, come faceva solitamente con chi sentiva vicino, una mano da posare sul suo avambraccio per fargli sentire la sua comprensione, il suo affetto. Ma aveva paura di farlo, temeva di agitarlo ancora di più. Aveva paura lei stessa, lei stessa era piena di paure tutte le volte che si sentiva avvicinata.
Il seminario era giunto al suo termine. C’era stata la cena dei saluti, il vino, l’allegria, i baci, le foto ricordo, lo scambio dei recapiti. E tutto era tornato come prima.
Io che ho raccontato questa storia non so cosa sia successo dopo. Posso solo immaginare che lei abbia continuato a farsi largo giorno dopo giorno cercando il suo centro, e che lui abbia prima o poi ripreso a puntare la sveglia alle sette e un quarto del mattino, a scendere dal letto in tempo e a cominciare a preparare la sua giornata senza indugiare oltre. Ma è molto probabile che la mia immaginazione si sia firmata prima di come sono andate realmente le cose.

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