scrittura

Abbracci


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
Le due donne si abbracciarono, anche se la prassi non lo richiedeva. “Ci vediamo tra quindici giorni”, disse la più anziana, un po’ tendendole la mano, un po’ stringendole il braccio. Incerta, fino a che l’aveva abbracciata. La più giovane le fu grata.
“Ero un’appassionata di musica, da ragazza”, le aveva raccontato la signora coi capelli bianchi.
Era diventata madre molto giovane, a 21 anni. “Non avevo la minima idea di come avrei fatto a capire come si cresceva un figlio, cosa era giusto e cosa era sbagliato. Così mi misi a leggere tutti i libri disponibili all’epoca su come essere genitore”. Era stata una madre attenta, ‘consapevole’ si direbbe oggi.
“Ero una appassionata di musica”, ripetè sembrando andare fuori tema. “Quando tornavo a casa mio figlio metteva sempre su lo stesso 45 giri; sapeva che mi piaceva. Mi invitava ad ascoltarlo con lui. Io lo liquidavo con un ‘bravo’ e continuavo la mia corsa. Eppure ero una madre così presente e attenta a ogni minima sfumatura”.
Anche quel racconto era fuori dalla prassi scientifica. Qualcosa di troppo personale.
“Molti anni più tardi mio figlio mi rinfacciò che ero stata una pessima madre. E tirò fuori la storia del disco. Ci stetti malissimo: io che avevo avuto la presunzione di essere così attenta, non avevo dato minimo ascolto a quello che lui mi chiedeva”.
Poi quell’abbraccio un po’ goffo, ma che non aveva potuto trattenere.
La prassi chiedeva distacco. Ma la donna più giovane, con le labbra pittate di rossetto per camuffare l’aria un po’ smunta di quella mattina, aveva capito: la donna più anziana se l’era presa a cuore perché ci aveva letto dentro una storia che conosceva benissimo. Risarcimento.
La giovane uscì col magone, ma un po’ sollevata. Erano anni che ruotava attorno a quel buco nero. Per fare luce aveva sempre pensato che fosse necessario distacco, scienza e conoscenza, freddezza. Palle. Un abbraccio aveva acceso un cerino. Accoglienza, idea rifiutata per anni.
“Qui sul davanti, il femminile”, aveva detto l’anziana sfiorandosi il seno e il ventre. “Dietro, il maschile”.
“La schiena, quella che fa male”, aveva sussurrato la giovane.
“E’ la parte ferita”. La donna strusciò in cerchio il pugno chiuso all’altezza della bocca dello stomaco. “Ci vuole un maschile forte per reggere. Non si lasci ferire anche lì”, continuò mettendo a posto quel caschetto liscio e candido.
Nero. Il buco. Che cazzo era successo che non si riusciva a fare luce, che ciclicamente tutto finiva inghiottito lì dentro? E dire che tutto sembrava essere stato così normale: le cene alle otto, il ‘fin che morti non vi separi’ (anche se poi la morte aveva separato), le vacanze d’agosto. Una vita da telefilm. Solo un disco, forse, un banale quarantacinque giri suonato a vuoto.

Una risposta a Abbracci

  1. Giovanna Canè scrive:

    A mio modesto parere: interessante rapporto fra terapista e paziente, uno scambio di ruoli accennato, un bel ritmo. Brava!

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