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ce l’avete coi selfie…?


Cindy Sherman – Una, nessuna e centomila la madrina di tutti i selfie
di ACHILLE BONITO OLIVA
ZURIGO. ALLA Kunsthaus di Zurigo c’è Cindy Sherman. Una retrospettiva, curata da Mirjam Varadinis e aperta sino al 14 settembre, con 110 opere dal titolo «Untitled Horrors» che tracciano l’avventura creativa dell’artista americana, nata nel New Jersey sessant’anni fa. Una sequenza d’immagini fotografiche e filmiche che ossessivamente rappresentano, attraverso l’autoritratto, quello che Rubert Musil chiama «l’identità molteplice dell’Io».
La mostra non segue un percorso cronologico ma un sorprendente accostamento di rappresentazioni, dal 1975 ad oggi, in cui la Sherman è l’unica protagonista. La ripetizione moltiplicata della sua figura in diverse posizioni, attraverso scatti, autoscatti fotografici e riprese cinematografiche fanno di lei un’icona.
Già Duchamp aveva dimostrato che niente sfugge al linguaggio. Il recupero del quotidiano produce non un passaggio dell’arte alla vita, ma solo un’estensione del campo estetico. Le tecniche di produzione e riproduzione dell’immagine permettono all’artista di recuperare anche le grammatiche del proprio corpo, presenza primaria assolutamente ineludibile.
Il corpo di Cindy Sherman qui viene esibito come un ready made cinetico, spiazzato dalla sua dimensione quotidiana e spostato in quella sorprendente dello spettacolo, corpo–oggetto e bersaglio per la contemplazione di un vasto pubblico.
Anche la dimensione delle opere ha un suo ruolo, evita lo standard del bel formato e gioca su una monumentalità capace di occupare intere pareti del museo. La diversa misura delle opere sviluppa un dinamismo iconografico che accentua l’edonismo creativo dell’artista e il bisogno precocemente postmoderno di rappresentare l’identità come produzione di disidentico. L’artista infatti appare e scompare in continui travestimenti di se stessa da Cover girls ( Vogue) ( 1976), ammiccante alla copertina della rivista, fino alle numerose Untitled degli anni Ottanta, Novanta e Duemila. Qui l’autoritratto non vuol confermare la perenne fissità dell’Io, ma piuttosto le mutazioni, le fantasie, le metamorfosi estetiche e somatiche che sembrano spostare la vita verso un film dell’horror. L’artista si riprende in molteplici atteggiamenti, tesi a rappresentare pulsioni immaginarie e la sua reale condizione di donna. Infatti il femminismo americano ha guardato con attenzione all’opera della Sherman. Il disidentico trova una sua rappresentazione che ribalta la ritrattistica tipica della storia dell’arte. Conta più il passaggio da una pelle all’altra. L’Io diventa un vestito appeso ad un gancio precario e svolazzante, molto lontano dalla coazione e ripetere di Andy Warhol che dichiarava di voler diventare una macchina.
Cindy Sherman con i suoi continui travestimenti rappresenta felicemente la tentazione del soggetto di praticare la vanità come prêtàporter del narcisismo. Una veloce passerella dell’immagine, sotto lo sguardo stupefatto dello spettatore in ammirazione per la volubilità dell’artista chiaramente indecisa a tutto . L’indecisione della Sherman è frutto di un ribaltamento ideologico che vuole capovolgere il trend di una società dei consumi, quella americana, pronta a celebrare il prodotto e non il suo produttore.
La mostra di Zurigo, che presenta an- che la celebre serie degli anni Settanta, Untitled Film Stills , evidenzia l’uso precoce dell’autoscatto che sembra già anticipare il selfie delle nuove generazioni. La fotografia non celebra i propri fasti tecnici attraverso l’uso del patinato o di una policromia seducente. Piuttosto evidenzia il rapporto ombelicale dell’artista col mezzo fotografico che tende sempre più a voler rappresentare una condizione onirica fino all’incubo di un travestimento allusivo di terrore e di morte. Nello stesso tempo serpeggia in questo sprofondamento anche l’ironia di uno sguardo consapevole e invitante, come si desume dalle Sex Pictures ( 1992) accostate alle più recenti serie degli Hollywood/ Hampton Types ( 2000-2002) e i Clowns (2003-2004). Compaiono immagini evocative del circo, allusioni ad oggetti violati di giochi dell’infanzia, come le bambole squarciate in un clima quasi post human. Macabro e grottesco, evocati dal sottotitolo della mostra «Untitled Horrors», confermano il clima espositivo di un’opera ormai quarantennale.
I tableaux vivants , i numerosi film e le serie televisive presentate come reali prodotti altamente professionali sono invece finzioni ammiccanti di un’artista che ha voluto conservare la solitudine artigianale di una creatività al servizio dell’ Io molteplice contro il Noi impersonale di una società globale.
La Sherman lascia al pubblico ampia facoltà di interpretazione. Da qui la sua volontà di spersonalizzare ogni opera attraverso il titolo sistematico Untitled.
Tale decisione evidenzia la poetica interattiva dell’artista che richiama il pubblico alla sua responsabilità e ad una personale lettura delle singole opere.
da Repubblica, 31 agosto 2014

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