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quello che vuole essere ricordato per aver amato gli uomini…..


Mario Dondero, fotoreporter senza archivio e senza digitale “Se l’obiettivo è rivolto sempre verso se stessi, non si vede nulla”

“Io e la Leica sopravvissuti nell’era selfie”

FRANCO MARCOALDI

SE NEL mondo della cultura, nelle sue diverse declinazioni, per indicare il talento valgono ormai soltanto il successo e il denaro, per fortuna esistono ancora delle figure che sfuggono a questo doppio diktat. E si muovono come cantava De André “in direzione ostinata e contraria”, coltivando le proprie passioni in assoluta libertà. Mario Dondero, classe 1928, leggendaria figura di fotoreporter, rientra a pieno titolo in questa categoria. Come giudicare altrimenti un signore che in piena epoca digitale se ne va ancora orgogliosamente in giro con la sua vecchia Leica al collo? E ancora. Nella costruzione di una carriera si sta sempre più attenti ad accumulare passo dopo passo i mattoncini del proprio edificio artistico.
Dondero, uomo della pura dissipazione, neanche concepisce la logica dell’accumulo e di un ordinato procedere. Con esiti, in certi casi, catastrofici: tanto per fare un esempio, a oggi non esiste un archivio sistematico delle sue fotografie.
«Sono stato io il primo a massacrarlo. Sa chi ha l’archivio in ordine? Chi stampa le foto in proprio; chi, come il mio amico Ugo Mulas, era capace di stare ore e ore su un negativo: perché lui era schiettamente fotografo. Per me è più importante correre dietro gli avvenimenti. Sono sempre stato con la testa avanti, io, ecco perché non ho mai badato all’archivio».
Forse lei è stato poco attento anche al complesso della sua opera. E il risultato, come sostiene un altro suo amico e fotografo, Ferdinando Scianna, è che la leggenda ha finito per prevalere sull’immenso lavoro fatto.
«Probabilmente Ferdinando ha ragione. D’altronde, io ho non ho mai conosciuto la passione della fotografia come un fatto estetico a sé stante. A me ha interessato e interessa il reportage giornalistico, come chiave interpretativa della storia umana. Poi, certo, avrà anche contato il fatto che pur lavorando molto seriamente, non mi prendo troppo sul serio».
Altra anomalia, in tempi di narcisismo dilagante. Mai si definirebbe un artista.
«Ma no, mi sento uno che fa una certa cosa perché gli viene facilmente e perché è collaudato a un senso esasperato dell’osservazione. Guardare, osservare, per me è diventata una specie di seconda natura».
Nella cosiddetta civiltà dell’immagine, le pare che la gente sia capace di guardare?
«Mica tanto, si vive sempre più imbozzolati in se stessi. Si è troppo autocentrati e quindi disinteressati a quanto accade intorno. Per me è esattamente il contrario, da quel lontano 1951 in cui cominciai a fotografare. Sa come ho cominciato?».
No, me lo dica lei.
«Assolutamente per caso. Facevo il cronista e mi ero stufato di dover chiedere ogni volta un fotografo che corredasse i miei pezzi. Poi è arrivato il miracolo de Le ore, quando in quattro e quattr’otto mi hanno fatto “inviato fotoreporter”. Da allora ho fotografato di tutto, con le più diverse testate. Ricordo ad esempio che quando stavo a Parigi e collaboravo col Giorno dovevo fare anche foto di moda, una cosa lontanissima da me. Grazie a Dio mi piacevano molto le indossatrici di allora, ragazze francesi piene di charme. E poi era divertente, sa. Avevo una lista di modelle, che so di Balenciaga o Dior, e dovevo convincerle a farsi fotografare. Così mi inventavo dei reportage piuttosto pittoreschi. Del tipo: una ragazza tutta vestita di bianco su una chiatta piena di carbone. Era un modo per inserirle nella vita normale, pratica ai tempi ancora piuttosto inconsueta.
Ma la moda non era la mia specialità: finiva che concentravo la mia attenzione sul viso della modella, o sulla chiatta, e magari dimenticavo le maniche del vestito».
La sua vera passione è stata semmai la politica.
«Non c’è dubbio. E la passione politica ha finito spesso per condurmi sui fronti di guerra e così, in più di un’occasione, ho corso il rischio di lasciarci le penne: come durante il conflitto tra Marocco e Algeria, o in Guinea. Comunque, ripeto, io ho fotografato di tutto: artisti, scrittori, ma soprattutto la gente comune. Perché ho sempre pensato a un racconto fotografico incentrato sull’osservazione di fatti minimali, su ciò che nella società rimane latente e deve essere riportato alla luce. In questo risiede il valore civile del nostro mestiere. Malgrado i giganteschi cambiamenti intervenuti».
Quali sono le virtù di un buon fotoreporter?
«Innanzitutto la curiosità intellettuale. Poi la lealtà nel raccontare nel modo più semplice possibile, senza inutili fronzoli o bizzarrie. Ancora, lo scarso uso di obiettivi sofisticati e il rispetto e la sensibilità verso gli altri, i protagonisti del nostro racconto fotografico».
Peccato che il mondo dei media proceda nella direzione opposta: cinismo e spettacolarizzazione.
«È vero, ma io sono un inguaribile ottimista e vedo comunque luoghi e prove contrarie di quello che dice. Mi attengo sempre alla sintesi deontologica del fotografo tracciata da Kapuscinski: conservare uno spazio di ingenuità. Soltanto così non si diventa cinici… E ora che mi ci fa pensare mi torna alla mente un romanzo finlandese, L’anno della lepre , che racconta la storia di un giornalista e di un fotografo che stanno tornando ad Helsinki, di sera. Tutti e due hanno un grande successo, ma sono completamente disgustati da quello che fanno. Guidando la macchina, il fotografo urta qualcosa. È un leprotto, che si allontana malconcio con il giornalista che gli va appresso mentre il fotografo comincia inutilmente a chiamare l’amico. Ma l’altro non risponde, si inoltra nel bosco e scompare. Comincia così l’anno della lepre, quasi che l’incontro con il dolore procurato a quell’animale, abbia risvegliato il giornalista spingendolo a intraprendere una nuova vita».
E il fotografo, che fine fa?
«Va per i fatti suoi, presumo. Anche perché sa, tendenzialmente non si attribuiscono a noi fotografi grandi pensieri filosofici. Ci vedono come dei tecnici, degli elettricisti, degli idraulici. Ricordo quando andai a ritrarre il grande storico Georges Dumézil. Aveva una casa che sembrava un camminamento della prima guerra mondiale. Solo montagne di libri. Nient’altro. Finché arriviamo in un salottino e lui, bruscamente, si mette in posa per sbrigare in fretta la pratica. Ma l’occhio mi cade su un libro sugli ittiti e cominciamo una conversazione di due ore e passa, finita poi in un bistrot a bere vino. Mai Dumézil avrebbe pensato di trovarsi di fronte un fotografo pensante».
C’è tutto Dondero in questo episodio: l’avventura, l’imprevisto è sempre dietro l’angolo. Ecco perché bisogna praticare il detour, geografico e mentale. Cosa impensabile in una società terrorizzata all’idea di perder tempo.
«È vero, io inseguo la variante. Qualche anno fa feci un lungo viaggio nella Russia post- sovietica con Astrit Dakli, un bravissimo giornalista, molto ligio agli impegni. E una volta tra noi ci fu un’animata discussione perché avevo appena conosciuto un camionista che ci avrebbe portato a vedere gli orsi. “Possiamo posticipare l’incontro con il premio Nobel di fisica”, proposi».
E chi vinse?
«Vinse Astrit, quindi il premio Nobel. E persero gli orsi. Peccato»

da Repubblica, 9 agosto 2014

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