scrittura

la casa del Patriarca



“Nelle coppie, uno dei due subisce sempre. Mentre l’altro, il più intelligente, prima o poi se ne va. E tra voi due sapevo che te ne saresti andata tu”. Era stata una conversazione ‘tra maschi’, la loro. Lei allora aveva poco più di vent’anni. Lui, sessanta o giù di lui. Dicendole quelle cose aveva fatto un torto al figlio. Ma lui era così, era un uomo duro. Con gli occhi di oggi lei lo avrebbe definito ‘maschilista’. Allora, non aveva coscienza di certe cose. E soprattutto lui era un uomo galante ed elegante nella sua durezza e nell’immensità della sua figura. E lei ne subiva il fascino. Come di un padre. Come di un personaggio epico. Solo più tardi avrebbe smontato il mito. E avrebbe compreso meglio la sua ex moglie che un giorno le raccontò di quella volta che si ruppe la lavatrice e lei, con l’acqua a mezza gamba, costretta a tirar su secchiate di acqua e a compiacerlo mentre lui, seduto sul divano, declamava ad alta voce brani da “Il Principe” di Macchiavelli.
Ora a distanza di decenni, aveva saputo dal figlio che dopo la morte del Patriarca la casa di campagna era stata messa in vendita.
Che brutta cosa. Erano anni che non tornava più in quel posto che era stato la sua giovinezza, ma era come se nella sua testa, quel borgo e quella casa di sasso, fossero rimasti congelati là, intatti, con l’illusione che se ci fosse tornata avrebbe trovato tutto come allora. Solo con un po’ di polvere addosso.
Il colpo più duro fu trovare immediatamente le foto della casa, interni compresi, sulle pagine internet di un’agenzia immobiliare. Era rimasto tutto immobile, nonostante la morte. No, proprio a causa della morte.
Il tavolo della sala pranzo, con il piano di vetro e le sedie verdi di paglia. Al sabato c’era il rito del pranzo. L’appuntamento era al forno nel paese vicino. Si prendeva l’aperitivo mentre si aspettava il pane che sfornavano apposta per il Patriarca, con la farina recuperata da un mulino della Romagna, anche quella macinata solo per lui. Poi si saliva a casa, ci si metteva tutti insieme in cucina, si apparecchiava prendendo fuori le stoviglie da quell’armadio che si vedeva di scorcio nella foto dell’agenzia, e si mettevano tutte le vivande in tavola. Il pranzo era una cerimonia di chiacchiere, letture e cibi semplici, di campagna, buonissimi. E non andava interrotto da qualcuno che si alzava a spignattare. Verso la fine, lui, da capotavola, scostava la sedia e la metteva di tre quarti. Prendeva in mano un libro e cominciava a declamare. I giovani (quattro fratelli e sempre qualche fidanzata in aggiunta – come era stata lei per diversi anni), ascoltavano ammirati. Poi ognuno diceva la sua, sperando di non dire boiate. A lei una volta capitò di scambiare la Deledda per non so quale altra scrittrice di tutt’altra epoca e tutta’altre origini. Non si ricordava neanche ora chi, ma si ricordava benissimo la vergogna di allora.

Faceva il medico, il Patriarca. E aveva autorità. Mani gigantesche e nodoso; non certo ‘mani da chirurgo’, come si dice. E invece lui operava cervelli, al microscopio. A giugno quelle mani le sporcava di nero perchè non rinunciava alla produzione del nocino; il mallo della noce fresca da tagliare prima di metterlo a mollo nell’alcol riduceva le mani impresentabili. Lei in quel periodo diceva che soffriva d’ansia, che stava male, che sarebbe potuta svenire, che aveva mal di stomaco. Lui una sera andò di là e ritornò con una pillolina bianca. Prova questa, le disse. Lasciò passare mezz’ora e le chiese se erano passati i malanni. Mi pare di sì, rispose lei. Allora lui tornò con la scatola: le aveva somministrato una pillolina di dolcificante.
O la volte che trovarono un cane setter su per i campi. O la volta che la obbligò a tornare dall’Olanda, in treno con le amiche, con un paio di zoccoli di legno numero 46 che lui avrebbe consumato nell’orto sopra casa. O l’armadio, dipinto dalla madre di lei, che stava ancora in uno dei bagni di quella casa le cui origini, si diceva, erano millecinquecentesche. Il bagno. Tutte le volte che ci andava le piaceva rubare un paio di gocce da quelle bottiglie di profumo fatto in casa, con la lavanda del giardino.
Che brutto, la casa stava per essere acquisita dal tanto odiato vicino, uno con la ‘febbre della roba’. E a lei piangeva il cuore al pensiero che quella casa non sarebbe stata più là. Anche se non ci sarebbe tornata mai più.

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