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Il prima viaggio intercontinentale a due anni dallo scoppio della pandemia. Mauritius: non solo resort. Un angolo della mia amata India, fuori dall’India, dove chissà mai quando si potrà tornare.
Qui il mio racconto fotografico.
“…com’è accaduto che, con la nostra tanto decantata intelligenza superiore, siamo diventati una specie talmente poco portata alla sopravvivenza? (…) Se questi istinti ci spingeranno ad aspettare finche sarà troppo tardi, saranno una maledizione. Se fortificheranno la nostra capacità di resistere nonostante i presagi sempre piú funesti, saranno una benedizione. Piú di una volta, speranze folli e ostinate hanno ispirato mosse creative capaci di strappare le persone alla rovina. Tentiamo allora un esperimento creativo: immaginiamo che il peggio sia accaduto. L’estinzione degli umani è un fatto compiuto. Non a causa di una calamità naturale, della collisione con un asteroide o di un’altra catastrofe capace di radere al suolo anche tutto il resto lasciando ciò che rimane in uno stato radicalmente alterato e impoverito. E neppure a causa di qualche cupo ecoscenario in cui ci spegniamo in una lenta agonia, trascinando nel frattempo con noi molte altre specie. Immaginiamo invece un mondo in cui tutti noi, e solo noi, scompariamo all’improvviso. Domani. Forse è inverosimile, ma a titolo esemplificativo non impossibile. (…). Guardatevi intorno, nel mondo d’oggi. La vostra casa, la vostra città. Il terreno circostante, con il manto stradale e il suolo nascosto al disotto. Lasciate tutto com’è, ma togliete gli esseri umani. Cancellateci, e osservate ciò che rimane. Come reagirebbe il resto della natura se all’improvviso si trovasse sollevata dall’incessante pressione che esercitiamo su di essa e sugli altri organismi? Quanto ci vorrebbe prima che il clima ritorni quello che era prima che accendessimo tutti i nostri motori? E potrebbe davvero tornare quello che era?”
da Il mondo senza di noi di Alan Weisman
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uomini e donne
“Ho fatto pace con papà Dürrenmatt”
di CONCETTO VECCHIO
da Repubblica, 12 / 12 / 2015

Zurigo
«Non fu mai facile per mia madre essere la moglie di Friedrich Durrenmatt, non fu facile per niente. Era sempre immerso nei suoi pensieri, come sigillato nel suo mondo. Nelle cose della vita quotidiana poi era maldestro, perdeva la pazienza facilmente. Quando ero ragazza capitava di parlare con mia madre, e poi come un fulmine irrompeva papà, con lo sguardo chino su un testo da correggere, s’intrometteva senza chiedere permesso: «Lotti, ho un dubbio»; allora mia madre subito troncava la conversazione, e insieme cominciavano a esaminare quel foglio. Discutevano accanitamente su ogni parola, su ogni riga, e io d’improvviso non esistevo più».
Ruth Dürrenmatt assomiglia al padre. Ha 64 anni, è musicista. Venticinque anni fa (14 dicembre 1990) se ne andava Friedrich Dürrenmatt, il grande drammaturgo svizzero, l’autore del Giudice e il suo boia (ora ripubblicato da Adelphi) e de La promessa, due romanzi che hanno scardinato il genere giallo. In 32 cinema svizzeri, da qualche settimana, si può vedere il film-documentario Dürrenmatt- Eine Liebesgeschichte,(Dürrenmatt – Una storia d’amore), sul rapporto tra il maestro e la moglie, Lotti Geissler, che fu qualcosa di più complesso di un semplice matrimonio, un sodalizio intellettuale fortissimo. Lo ha realizzato una cineasta di Zurigo, Sabine Gisiger, che per la prima volta ha convinto anche la sorella dello scrittore Verena, 91 anni, e due dei tre figli, Peter, 66, sacerdote protestante, e Ruth, a parlare della loro famiglia. Il film contiene pezzi d’archivio indimenticabili, come l’ultimo discorso pubblico di Durrenmatt, quello dove descrive la Svizzera come una prigione – dove gli svizzeri sono allo stesso tempo secondini e carcerati.
Signora Ruth, com’era Dürrenmatt da padre?
«Lui di sé diceva sempre di essere stato un cattivo genitore, per tutta la vita fu tormentato dai sensi di colpa. Non fu semplice essere sua figlia. Ma adesso lo capisco, e lo amo senza rancore: era uno scrittore di successo, pubblicava un libro all’anno. Insomma non faceva l’impiegato delle poste che alle 5 torna a casa e si mette a giocare con i figli. Ogni suo pensiero era dedicato ossessivamente alla scrittura. Lavorava senza soste. Era capace di riscrivere anche cento volte una pagina».
Colpisce l’episodio di lui che irrompe e tronca la conversazione con sua madre.
«Una volta, avrò avuto 17 anni, ebbi un bellissimo scambio con lui. In genere teneva un tono sempre oggettivo, una certa distanza dalle cose, quella volta fu finalmente personale, e io ero felice di potergli parlare un po’ di me. Poi d’un tratto lui guardò l’orologio, e disse: “Sono le 14, devo tornare a scrivere”. Lo pregai di rinunciarvi, almeno per una volta. “Non posso”, ribatté. E si rinchiuse nello studio. Per farmi notare, prendevo i piatti della cucina e li scaraventavo sul pavimento».
Suo fratello Peter nel film racconta che quando scriveva, voi figli dovevate rimanere nel silenzio più assoluto.
«E non capivamo perché, eravamo solo dei ragazzini! A scuola, quando facevo un bel tema, i compagni mi dicevano: “Eh, certo, glielo ha scritto il padre”».
Era autoritario?
«Sì, certo. Ma soprattutto era un affabulatore. Quando era rilassato, dopo cena mi portava con sé nel bosco, a spasso con il cane. E allora iniziava a raccontare storie di fantasmi. Era divino. Alcuni editori gli diedero spontaneamente degli anticipi solo dopo avere sentito i suoi racconti; naturalmente lui non scrisse una riga».
Che tipo era sua madre?
«Da giovane era stata attrice, una donna bellissima. All’inizio non avevano un soldo. Mio padre scrisse i romanzi polizieschi per denaro. Lui le chiese di rinunciare alla carriera, e da allora tutta la vita di mia madre girò attorno a lui. Al primo posto c’era Friedrich, e poi venivamo noi figli. Lei lo seguiva alle prove nei teatri, alle conferenze in giro nel mondo, correggeva i suoi testi, a volte criticava dei passaggi nei suoi manoscritti. “Non funziona!” gli diceva. Allora lui si inalberava, se ne andava furioso, e dopo un po’ ricompariva e seguiva il suo consiglio. La mamma era totalmente assorbita da lui».
E poi all’improvviso, nel 1983, Lotti muore.
«Fu una tragedia enorme. Consideri che mio padre era convinto di morire giovane. E con qualche ragione, dacché dall’età di 26 anni era gravemente malato di diabete. Intorno ai 50 anni aveva subito già due infarti. Diceva: “Voglio essere seppellito dentro una tomba piena di salsicce e spaghetti e tante tante patate!”. Aveva aperto un contocorrente alla moglie: era angosciato dal fatto che la famiglia rimanesse senza reddito. E poi lei si spense, e lui ereditò quello che le aveva versato in tutti quegli anni».
Eppure, un anno dopo, si risposò con un’altra attrice, Charlotte Kerr. Come andò?
«Mio padre aveva 62 anni. Non riusciva più a scrivere. Commise delle stupidaggini. Non era più lui. Poi un giorno arrivò la Kerr, e disse che voleva fare un film su di lui. Papà si innamorò: “È come la Lotti”, diceva. Ma non era vero. Come la mamma anche la Kerr era stata molto bella, ma era un’attrice capace di recitare un solo ruolo, ed era davvero troppo concentrata su stessa ».
Sua zia Verena sostiene che Dürrenmatt grazie a questo amore rifiorì. È così?
«Charlotte era gelosa di Lotti. Capiva che il rapporto con mio padre non avrebbe mai potuto raggiungere la stessa simbiosi che c’era con lei. Non volle avere rapporti con noi figli. Lui le tacque dove aveva conservato le ceneri di mamma».
In che senso?
«Non le disse mai che aveva tumulato le ceneri della prima moglie sotto l’albero in giardino. Mio padre non era tipo da funerali, non amava la Chiesa. Prima di morire diede disposizione di seppellire le proprie ceneri sotto lo stesso albero. E Charlotte eseguì. Quando lei morì, nel 2011, ordinò di poter essere seppellita nello stesso posto, insieme a Friedrich, mai immaginando che là già riposava Lotti».
Quindi ora riposano tutti e tre sotto lo stesso albero?
«Sì, non è un tipico finale da Dürrenmatt?» (Ruth scoppia a ridere fragorosamente).
Perché ha taciuto finora?
«Tutti mi chiedevano di mio padre. Ma io ero Ruth, e avevo la mia di vita. Ora posso fare i conti con me stessa e la mia famiglia. Domani, a Neuchatel, suonerò per papà in occasione delle celebrazioni del venticinquesimo».
Detroit, la città di Rosa Parks

Fondata nel 1701 da cacciatori di pellicce francesi, è oggi più nota come capitale dell’industria automobilistica statunitense. Nella bandiera di Detroit compaiono i gigli di Francia e i leoni d’Inghilterra, a simboleggiare il ruolo svolto dalle due potenze nella storia della città situata al confine fra il Canada francese e i territori colonizzati dai britannici.
Detroit è la diciottesima città degli Stati Uniti con una popolazione di 701.475 abitanti (4,3 milioni nell’area metropolitana) secondo i dati del U.S. Census Bureau del 2012: si tratta di meno della metà della popolazione che la città aveva al suo apice negli anni cinquanta. L’amministrazione cittadina ha subito, nel 2013, una bancarotta, la più grande nella storia delle città statunitensi, ma a dicembre 2014 è uscita dall’amministrazione controllata.
Città a vario titolo di Rosa Parks, Henry Ford, Mis van der Rohe, di Madonna e della Motown. “E’ una città piena di storia, la nostra”.
Enjoy


















